Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Freud sviluppò una pratica e una teoria clinica che postula che la nostra psiche, al di là della sua parte conscia e volontaria, è organizzata anche attorno ad una parte più sepolta e inconscia, dove si intersecano i nostri impulsi (il nostro slancio vitale) e le nostre repressioni (cioé le esperienze che mettiamo lì perché per vari motivi non possiamo affrontarle nel momento in cui le viviamo).
Freud postula anche che la relazione tra queste due parti può essere conflittuale e causare disturbi che altrimenti non hanno spiegazioni mediche o biologiche. Osservò anche che era possibile agire su questi disturbi risolvendo i conflitti conscio/inconscio attraverso la pratica della parola. Almeno, una certa parola ed a determinate condizioni.
In effetti, questa teoria si articola con una pratica basata sulla libera associazione – cioè la verbalizzazione più completa e libera possibile di ciò che accade nella testa della persona durante la sessione – in presenza di un terapeuta che ascolta in modo neutro e benevolo. Tutto può essere espresso, anche il più indegno, anche il più assurdo. L’ ascolto terapeutico che rispecchia le associazioni ma anche i ricordi, i sogni, o le immagini che spontaneamente arrivano all’analista, permette di far emergere gradualmente un senso cosciente a movimenti inconsci ma attivi e spesso dolorosi o insensati perché privi di connessioni psichiche